Sogno o son desto? Calogero Condello

Sogno o son desto? di Sabrina Zannier

Un interrogativo retorico, che dalla filosofia e dalla letteratura, dove segna il passo tra realtà e onirismo, si catapulta nella vita quotidiana, ben si presta a titolazione della mostra di Calogero Condello. Perché le sue sculture nascono dall’attenzione alla società contemporanea, alla vita di tutti e di tutti i giorni, per metterne in scena narrazioni individuali e collettive capaci di sollevare questioni esistenziali. “Sogno o son desto?” è un modo di dire che si rivolge a se stessi per esprimere meraviglia, stupore e incredulità quando ci capita qualcosa di così bello che pensiamo possa accadere solo in sogno; oppure quando è difficile individuare il limite tra ragione e passione, tra stato di coscienza e abbandono emozionale, quindi in genere quando si dubita della facoltà di controllo e supervisione delle proprie azioni e dei propri pensieri.

“Sogno o son desto?” è un interrogativo che esprime il desiderio di verità, espresso dai protagonisti in mostra, dai giovani immortalati dall’artista sotto spoglie scultoree. Sono sempre loro a urlare in modo affermativo il titolo che si erge a racconto articolato sulla scena dell’arte. Come accaduto con “Non siamo i soliti ignoti” per l’esposizione al Castello di Udine e con “Noi ci siamo!” al Palazzo Elti di Gemona del Friuli.

E’ ai giovani che Condello dà la parola, dopo aver ascoltato le singole voci nella relazione diretta con ogni effigiato. Una parola che riecheggiando di scultura in scultura attraverso le fattezze dei volti e le posture dei corpi, si versa in una molteplice coralità. Per incidere un’affermazione d’identità, una premessa di svelamento del singolo nel gruppo, ma anche del gruppo attraverso la molteplicità degli individui; per indicare il desiderio di esserci nella differenza, attraverso la presa di coscienza del proprio tratto identitario.

Il soggetto trattato dall’artista è la nuova generazione. Quella che in una società votata al giovanilismo cavalcato dagli adulti, spesso è lasciata sola e ignorata nei suoi dubbi e nei suoi interrogativi. Difficile dare risposte ai giovani, ma è proprio ascoltandoli che gli si offre il paradigma sul quale permettergli di costruirle da sé.

Le sculture di Condello, ricavate dai calchi dei corpi prestatisi a lunghe pose, sono metafora di questa dedizione all’ascolto, che si traduce in un “sentire toccando con mano” e in un ri-costruire e interpretare per via di dettagli, nella variazione di materiali, tecniche e cromie. Un ascolto che indaga e sonda individui e gruppi mettendo in scena volti e corpi di ragazze e ragazzi elevati a metafora del diffuso disagio sociale, che si dispiega in rabbia, sofferenza, difficoltà, uniformità.

Ma se l’arte prende di petto la realtà, è per suggerire la via di una rinascita esistenziale, come narra l’installazione intitolata Non siamo i soliti ignoti, dove respiriamo il sapore del riscatto innanzi ai candidi corpi, dagli incarnati tesi e carezzevoli, liberati dalla grezza e impersonale corazza dell’uniformità. Corpi che dialogano con la colorata teoria dei volti alle pareti, bloccati nell’estrinsecazione di stati emotivi talmente riconoscibili – dal grugno allo sberleffo, dall’urlo di gioia o di protesta – da farsi quasi caricaturali tracciando il passo di un campionario del sentire umano.

Affiora così uno stato di emergenza emozionale, che ha il sapore della meraviglia sotteso all’interrogativo posto nel titolo della mostra. La meraviglia di una vibrante rinascita, che affiancata dalla preghiera, dalla speranza dei due adulti inginocchiati davanti all’Italia nell’installazione Pregando il risveglio, si eleva a metafora di un cammino tra padri e figli. Un cammino di rilevanza sociale, entro il quale Condello mette in scena anche il riscatto del singolo attraverso i busti colorati che punteggiano l’altra parte dello spazio espositivo.

Sono ragazzi e ragazze immortalati con abiti quotidiani, in gesti, posture ed espressioni di una giornata qualunque; ed è proprio il registro della presunta banalità a conferire a ogni figura il valore della verità. Talmente incisiva nell’incarnato che pulsa dalle canotte, nella personalità affermata attraverso la cuffia di lana e la sigaretta o messa a nudo tra il boxer che sborda dal pantalone e la fascetta sui capelli, da farsi stra-ordinaria. Perché il desiderio di verità che sostiene l’opera di Condello funge da rivelatore della personalità, che nelle sculture bianche della ragazzina e del ragazzo fiero di sé nella sua tenera dolcezza, riassume il candore e la purezza di un’età in bilico fra ricerca di affermazione e conferme di protezione.

Dalle singole figure ai gruppi scultorei, l’artista di volta in volta articola un racconto. Incentrato sul singolo svelamento identitario nella forza della presenza gestuale ed espressiva, dai morbidi incarnati alla texture degli abiti si moltiplica nella diversità delle presenze plurali.

Con l’installazione al Teatro romano il principio della moltiplicazione propone però una riflessione sull’identità individuale, laddove due sole figure, ognuna immortalata nella medesima postura, sono ripetute in più sculture. Qui la differenza è data dalla condizione di luce: di giorno appaiono bianche, mentre al buio svelano diverse emergenze cromatiche, con effetti luminosi che tracciano il profilo della sagoma, oppure con luminescenze rosso, verdi, gialle che riempiono a zone la struttura formale. E’ una sorta di svelamento dell’aura, che nel disegno del profilo assume una valenza spirituale, mentre nell’accensione cromatica del formalismo corporeo, dal torso al volto, sembra inscenarne le interiora e, con la forza del dramma, rigettare sullo spettatore la metafora dello smascheramento soggettivo.

E’ un dialogo con l’interiorità, nell’intreccio fra due estremi: il ragazzo che urla, per rabbia, gioia, disappunto o felicità; e il ragazzo con la colomba, immerso nell’intimismo dei suoi pensieri, nella pace di un’umanità che, in piedi, sulle gradinate di uno splendido sito archeologico, tesa tra passato e futuro, urla e pensa: “sogno o son desto?”